UTC 2:03
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la prima parte dell’articolo si trova su MUMBLE:
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Riprendiamoci. Come rialzarsi dopo una scarica di cazzotti ben assestata, una sassaiola data da qualcuno che le sa dare di santa ragione. Tanto efficace, feroce e tecnico che ti vien da ammirarlo per la dedizione che ci mette. Uno di quelli da cui le puoi prendere e basta. Chapeau. Riecco la corrente elettrica.
Io sono intero, tu sei intera, tutti qui attorno sono interi. Step successivo: oddio i miei. Tutti i telefoni sono dentro. Nella casa che da ora in avanti ci sembrerà più un trappola per topi che un luogo dove riparare. Già la porta, orribilmente spalancata a mostrare parte del disastro che mi attende all’interno, mi appare temibile. Non andare. C’è tutto dentro, non è crollato nulla. Non andare. Vado, non resisto. Ho l’andatura del pollo che punta una beccata, guardingo e un po’ ballerino. La “mise” smutandata contribuisce all’effetto scenico della mia figura che non si addice allo scenario di una tragedia. Le bottiglie sono cadute lontano; le caffettiere, sempre pronte all’azione sul fornello, sono stese, morenti, sui fuochi; chitarra, basso e pedaliera sono coricati all’imbocco del corridoio. C’è luce proseguo, varco la porta, attraverso il salotto. Veloce. Veloce. Veloce. Brividi gelidi e un senso di malessere, come se fossi seguito. Arrivo in camera, accendo la luce. L’armadio è sdraiato là dove dormivamo fino a pochi secondi fa. Un corpo morto e le viscere di abiti colorati che sgusciano ai lati. Adesso sì. Adesso piango. Mano alla bocca, lacrime a fiume. I telefoni sono sul comò, vicini. Li afferro. Un particolare non quadra: non c’è più lo specchio, è sparito. A terra nemmeno una scheggia, seguo il drappo di un vestito e sotto il letto vedo la cornice, intonsa e il vetro senza nemmeno una crepa. Botta.
Il pavimento flette. Sono le gambe. Non sono le gambe. Via cristo, via. Cosa credo? Certe libertà non me le posso più permettere da ora in avanti. Non comando io. I tempi li stabilisce lui. Una manciata di secondi sono pure troppi: temporeggiare, osservare, riflettere è vietato. Un ringhio maschio e rozzo mi ricorda che ho invaso un territorio che non è più mio. Un giro panoramico nella casa che fu per me un rifugio è l’esca per trasformarmi ancora una volta nel suo giocattolo. Fuori in un baleno, almeno questa volta vedo dove vado. E ride, soffia, ruggisce. Si diverte, credo. Sono di nuovo scalzo sulla ghiaia e ho gli occhi lucidi. Umiliato. Smette.
Non ci torni più. No, ho capito. Ho i telefoni almeno. Mamma. Chiama. Muto. Babbo. Chiama. Muto. Come? Mamma. Muto. Babbo. Niente. E adesso? Stiamo calmi. Ambulanze, o Vigili del Fuoco? Ho paura adesso. Adesso ci sono troppe variabili e troppe domande. I dieci metri attorno a me sono ok, ma il resto? Il respiro mi strozza. Abbracciami perché non so che fare. Chiamo. Richiamo anche se so che non serve a niente. Però non si sa mai. Botta.
Via dai muri, via da sotto i balconi, via dai pilastri del cancello. Via da qui. Cosa vuole dimostrare adesso? Ci ha vinti, ci ha umiliati. Ci vuole sottomettere. Ce l’ha con noi? Sì, ce l’ha con noi. Ancora grida, anche se siamo tutti fuori. Adesso il freddo mi entra nelle ossa, dovrò venire a patti, dovrò entrare in casa e non potrà passare tanto tempo. Non posso stare seminudo perché non sto più tremando solo per le scosse. Il vicino continua ad imprecare e sfoggia domande retoriche: ma cos’è ‘sta storia? Lo sappiamo bene cos’è, ma ci fa già schifo ammetterlo. Smette.
C’è un’auto, si ferma al ciglio della strada. E’ un’auto conosciuta. E’ mio padre. E mia madre sta bene. E la casa è in piedi, almeno per ora. E’ già qualcosa. Quante volte ho pensato “meno male che almeno una casa ce l’ho”? Mai. Da oggi sarà il leitmotiv. Non sono credente, neanche un po’, ma credo di aver ringraziato Dio. O chi per lui. Almeno credo di averlo pensato molto intensamente. Vale lo stesso?
Chiudi il gas. Vero, siamo tecnici. Ho i contatori sotto il naso e non ci avevo pensato. Prima contromisura attuata: girare un paio di valvole a farfalla mi ha persino fatto pensare che sì, qualcosa lo si può fare per rovinargli il gioco. Un piccolo sussulto d’orgoglio, una vittoria di Pirro in realtà, lo so benissimo. Continuo ad avere freddo. Le giacche sull’appendiabiti sono vicine alla porta. Me lo posso permettere. Non ci penso più, che si fotta: entro spedito e abbranco tutto quello che mi capita in mano, ce n’è in abbondanza. Mentre mi giro e muovo il passo per uscire mi ringhia contro ancora. Un attimo. Poca roba: un rigurgito quasi sommesso. Una piccola vittoria per me o una manifestazione di disinteresse da parte sua. Ci capiamo già?
I tuoi al telefono stanno bene. Hanno sentito ma non hanno sofferto. Allora era proprio qui, sotto il nostro letto. Mio padre se ne va a rincuorare mia madre che, come è banalmente prevedibile, piange a dirotto. Step tre: i ragazzi. Come stanno? Dove sono? Qualcuno ha bimbi piccoli. Non facciamo scherzi. Questo cataclisma potrà essere spaventoso, pirotecnico, esagerato, ma basta così. Non può essere andato oltre. Sarebbe ingiusto. Me la racconto proprio bene questa cretinata della giustizia sismica, tanto che ci credo. Mi tranquillizzo anche. Comincio una lunga serie di chiamate telefoniche, la maggior parte a vuoto. I cellulari ti fregano, vanno solo quando li usi per stupidaggini e sprechi, adesso che ne avrei bisogno, che desidero fortemente sentire una voce dall’altra parte, niente. Qualcosa funziona di rado. Poche parole flaccide, impastate di saliva. Comunicazioni brevissime e fitte, riparate con le mani a conca dalle sirene che ormai sfrecciano impazzite in ogni direzione e su più livelli. Vicine e lontane, comunque insistenti.
La luce fa capolino da sotto il suolo. Era ora. Ogni tanto metto in pausa il call center e ti abbraccio. Siamo qua. Abbiamo anche le giacchette che ci scaldano. E giù di chiamate. Penso al peggio. E poi al meglio. E poi all’ovvio. Ma non mi fido. Richiamo. Qualcuno ha già risposto e sono punti per la mia squadra. Qualcuno si ostina a non voler rispondere. Gli squilli a vuoto sono coltellate alla gola, fa tutto parte della tortura cominciata ormai circa un’ora fa. Arrivano le prime notizie. Assurde. Questo è crollato. L’altro è coricato. Questo non c’è più. Sparito. Ma no, state scherzando, vi siete sbagliati. O meglio: state esagerando. Saranno crepe, un capitello per terra, un cornicione già sfatto dall’umidità. Siamo emiliani non siamo abituati a queste cose e ci caschiamo come allocchi, da noi non succede… no, stavolta non ci ricasco. Ma non ci credo lo stesso. Avrò torto.
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